VOMITARE L’ANIMA. DAL TOSSICO AL TESSILE, APPUNTI SUL LINGUAGGIO TURISTICO

GHNET GENNAIO 2011

Troppe volte le narrazioni dei luoghi hanno usato un linguaggiopreconfenzionato: testi asettici all’interno di strategie sterili. Un altro super post di Andrea Ruggeri che racconta la sua idea di linguaggio turistico moderno: il “testimoni contro testimonial” che suonava come campanello d’allarme.

 

C’era una volta un moderno gruppo di turisti stranieri.

Stavano facendo un viaggio in Italia, si ritenevamo soddisfatti del paesaggio che calpestavano e avevano comprato in visione, un po’ meno degli italiani che glielo avevano venduto. Nel paesaggio vedevano qualcosa che potevano capire da soli, un’emozione che osavano descriversi, o così pensavano, ma negli addetti al turismo vedevano solo incensatori di bellezze e storie dei luoghi, lo stesso avrebbe fatto un francese, un lituano o un spagnolo. La solita tiritera di aggettivi, la stessa enfasi, come se tutte quelle descrizioni facessero parte di un linguaggio universale codificato, fatto a stampino per qualunque umano che diventa per un po’ turista.

Era mai possibile che questi italiani che accoglievano i turisti da secoli, con tutte quelle migliaia di anni di storia alle spalle, si fossero ridotti a questo povero standard di parole?

Chi era mai il proprietario, o l’artefice, di questo modo di esprimersi che sentivano adottare a casa loro, e risentivano appiopparsi quando facevano i turisti in Italia? Perché tutti, in tutto il mondo, parlavano ai turisti nello stesso modo?

Una sera in trattoria, mentre mangiavano “prodotti del territorio” e sentivano dire dai locali “qui dentro c’è la nostra identità”, e che era frutto di una “tradizione secolare”, e anche che sentissero “la vita di generazioni che scorre”, e li s’incitava ad “assaporarne la lentezza”, andò così: venne a tutti un’indigestione tremenda, e furono anche additati: una cosa del genere succedeva solo a loro, che neanche ai bambini del territorio succede di star male con il km zero. Insomma una figuraccia da incubo. I turisti stranieri si sentivano in colpa, e più si sentivano in colpa più stavano male, finché accusarono uno straniamento lancinante, somigliava a rigurgito, o a espettorazione. Insomma, letteralmente, vomitarono l’anima.

E si sa, quando le anime abbandonano i corpi, non ritornano più.

Le anime dei turisti trasmigrarono in un mondo a mezz’aria che non era né inferno, né paradiso, ma una specie di limbo marketing, un bagno turco gocciolante di frasi fatte. Udirono echi smorti su “passeggiate golose nelle valli incantate”, “sinfonie di colori e profumi” e belinate sulle “mani sapienti dei nostri artigiani”.

Le anime dei turisti stranieri si consultarono brevemente e capirono: l’indigestione che le aveva vomitate fuori dai loro corpi, non era dovuta alla cattiva qualità dei cibi ma a quel linguaggio che li accompagnava.

Si erano intossicate di frasi fatte. S’incazzarono.

Quello che seguì fu una ricorsa ai propri corpi, alcune ne ripresero possesso, altre no. Comunque si vendicarono

comparendo come un incubo nei sonni di molti assessori e manager sotto le spoglie di vecchi contadini, giovani marinai e poeti latini, o con le sembianze di Giacomo Leopardi o Cesare Pavese. “Parla come mangi”, dicevano tutti con voce incattivita.

La questione del marketing tossico è questione strettamente connessa al linguaggio finora adottato dal turismo italiano.

Un linguaggio infestante, omologato, ripetitivo, sciocco e banale nella sua enfasi mediocre. Un linguaggio i cui artefici sono globali e non locali. Gli italiani traducono pedissequamente una litania aggiungendo pizzichi di “poetica” propria. Come del resto s’arrangia ogni colonizzato dai mainstream planetari.

 

La questione può essere messa così:

LA STORIA DEI TERRITORI COINCIDE CON IL LINGUAGGIO TURISTICO DEI TERRITORI?

Diversamente:

La comunicazione turistica dei territori è all’altezza della storia dei territori stessi? Ci si deve o meno emancipare dallo stereotipo del linguaggio turistico che finora li ha rappresentati? O va tutto bene così?

Se no, come si dice in gergo, significa cambiare il brief:

Passare dal tossico al tessile.

Perché produrre storie è come produrre filati.

E noi siamo un paese di una certa storica destrezza in materia.

La comunicazione deve essere il telaio delle storie che fanno un territorio. Meglio dire, che si fanno in un territorio. Si tratta di passare ad un’invenzione sostenibile della narrazione e descrizione dei territori, che non ha più per protagonisti esclusivi i soliti “traduttori”: pr, pubblicitari, addetti alle brochure, maniscalchi dell’eventistica, etc.

In altre parole:

Nella continuità consociativa si comunica con un linguaggio da colonizzati. E ci si riduce prima in cecchini miopi, poi, irrimediabilmente, in ciechi tout court.

Nella discontinuità ciascuno produce il suo filato, si tratta di dare trama alle versioni, versioni manipolabili dalla gente che viene in visita, non di inventarsi “La Versione” di un territorio. Non solo, quando tutti credono di parlare con tutti non si dimentichi che le risorse di attenzione non sono inesauribili. Per questo è decisivo non saturare l’economia dell’attenzione, e inventare un linguaggio sostenibile, ovvero che meriti il tempo dei nostri “uditori”.

Dunque

Puzzle contro cartolina.

Testimoni contro testimonial.

Dettaglio contro insiemistica.

Rete contro centralizzazione

Da qui nasce un nuovo filato.

Il problema non è se lo spot sia obsoleto o il virale vincente, se un social network sia meglio di un circolo sociale, se l’off-line sia inglobato dall’on-line, queste sono cretinerie che hanno stufato quanto coloro su cui stanno appiccicate.

Il problema è, prima ancora, quale nuova chimica del marketing viene prodotta dalla fisica di un territorio. La prima deve essere il risultato del secondo. Non un linguaggio sovrapposto, e insostenibile come un virus opportunista nel tessuto sociale che lo ospita.

Abbiamo bisogno di ricostruire il filato: la storia dei territori.

Abbiamo bisogno di narrazioni e comunicazioni corte e veloci ma non per questo incomplete.

Abbiamo bisogno di una nuova tessitura delle storie per ridare dignità alla parola più sputtanata dal turismo: “autentico”.

Abbiamo bisogno di sciogliere il linguaggio dei testimoni in una rete per loro sostenibile, e non perdere tempo a rottamare il mainstream odierno. Rottamare prevede una consistenza da fare a pezzi, ma qui c’è pura inconsistenza. Perché sudare e lavorare su qualcosa che non ha nemmeno la dignità della materia?

Non abbiamo bisogno di cartoline e testimonial, lasciamoli a chi si occupa di riprodurre gli stereotipi di vecchie continuità morenti. Non vale nemmeno la pena rottamarli, sono già i demolitori di se stessi.

Un linguaggio sostenibile è quel filato che fa trama con le esperienze non manipolate dai “traduttori”, ma che da loro vengono scovate e rimesse in circolo. Dobbiamo solo individuare l’eccellente materia prima che ci è sfuggita, che se n’è andata per i fatti suoi. Organizzare una nuova rete.

Tutti dobbiamo ossigenare un linguaggio meno verticale e mediato, che ha a che fare con un nuovo pluralismo della comunicazione turistica. Quello che produce reciproco contagio. Quello che crea bouquet di campo sempre diversi e con tanto di radici. Basta con i fiori di serra recisi. E per chi persevera, crisantemi.

E’ incredibile come abbiamo estromesso gli artefici, giovani e vecchi, o li abbiamo trasformati in comparse e saltimbanchi per turisti, o li abbiamo lasciati morire, o scappare, ignorati e sostituiti da casting di attori professionisti. Abbiamo buttato candeggina sui nostri filati, così che ci facciamo sopra anche degli educational.

Il nuovo Viaggio in Italia del turista straniero è: quante storie posso rubare agli italiani e farle mie?

E se non vengo messo nelle condizioni di rubarle, la mia anima non sarà più disponibile.

Andrea Ruggeri, direttore creativo di Jack Blutharsky Group.